IL TELEFONO & LA MEDIUM – Opera Lirica

Cinema Teatro Politeama - 9 MARZO 2023, Ore 21:00
IL TELEFONO & LA MEDIUM – Opera Lirica

Gian Carlo Menotti è un classico esempio di Nemo propheta in patria: amatissimo negli Stati Uniti, celebre in tutto il mondo, ma ancora poco eseguito in Italia. Il dittico Il Telefono & La Medium, eseguito per la prima volta a New York nel 1946, è costituito da due brevi opere molto diverse tra loro. La prima racconta il surreale rapporto tra Ben e Lucy, ostacolato dall’ossessione di lei per il proprio telefono. Un tema estremamente attuale, considerato quanto oggi siamo dipendenti dagli smartphone, ma mostrato in maniera leggera e divertente. The Medium, invece è probabilmente l’unico esempio operistico di noir, ha come trama una serie di eventi scatenati da una finta seduta spiritica, in un susseguirsi di scene colme di suspense paragonabili a un film giallo, genere che – negli anni ’40 – stava raggiungendo grande popolarità.

Menotti è stato definito da più studiosi l’erede di Giacomo Puccini, è stato capace di trasportare e adattare l’opera italiana al gusto americano. Questa nuova produzione del Varese Estense Festival – Menotti vede un cast guidato da una star internazionale come Manuela Custer, accanto a giovani promesse della lirica italiana. A dirigere la sua Orchestra Canova è Enrico Saverio Pagano, già inserito dalla rivista Forbes nella lista dei 100 Under 30 destinati a cambiare l’Italia. Regia, scene e costumi sono di Serena Nardi, direttrice artistica e fondatrice del Varese Estense Festival.

Un dittico di lucidità tagliente, Il telefono e La Medium,  espressione di  quella profonda conoscenza che Gian Carlo Menotti aveva del genere umano e dei suoi vizi, che si trattasse di frivolezze o di misfatti.

E una geniale esplorazione, in ciascuna delle due opere, di generi assai in voga negli anni ’30/’40: lo “sketch comico”, numero di avanspettacolo di puro intrattenimento (anche spesso declinato in forma musicale) e il genere cinematografico del  “noir” con tutti gli ingredienti del caso (il disagio psicologico e sociale, la dark lady, le distorsioni, l’omicidio), come ultima evoluzione dell’espressionismo tedesco.

La regia, mantenendosi su questo allineamento temporale ed estetico, ha deciso di accostare e integrare la commedia e la tragedia come simboli dell’incessante altalenare della vita umana dalla gioia al dolore, dal riso al pianto.

Menotti scrisse queste due opere a distanza di un anno, Il telefono nel 1947 e La Medium nel 1946 e i temi trattati sono di sconvolgente attualità.

Allora si era nel primissimo secondo dopoguerra e si respirava una generale necessità di ricostruzione del tessuto umano, relazionale e sociale.

E queste necessità si ripresentano ciclicamente ogni volta che il genere umano, come credo accada anche oggi, perde la capacità di “guardare” e si limita a “vedere”, si accontenta di “udire” invece di “ascoltare”.

Integrando le due opere, rendendole un continuum narrativo, musicale e visivo, la regia racconta come in un salotto “high society” dell’oggi, ben incastonato, se non addirittura nascosto, nei labirintici meandri di una grande città, si consumino le più varie forme di uso e di abuso col pretesto di svagarsi.

Anche Il telefono viene incastonato, come un cameo, nella vicenda narrata da La Medium, funge da  straniante preludio comico che introduce il lento e progressivo scivolamento verso  la tragedia.

Immersi nell’eccitazione artificiale, godereccia e beota, dello scintillio di sorrisi e paillettes, di luci accecanti, di intrattenimenti canori e non solo, gli ospiti, tutti più meno alterati ma ben integrati in un sistema di finta convivialità, rappresentano un’umanità tanto scellerata quanto miserabile: la spasmodica ricerca di un benessere, di una felicità provocata e fine a se stessa.

Individui vaganti in un gioco di presenza/assenza raccontata dall’uso di maschere, che però celano il viso solo parzialmente: questo perche’ l’identità si può occultare ma non si può frenare il processo spietato di negazione della gioia o del dolore.

Ci si immerge, dunque, in un “happy hour” che non finisce mai e che ruota attorno alla padrona di casa, Madame Flora, grande maitresse di un piccolo giardino di delizie (che in realtà è solo un triste hortus conclusus), una moderna maga Circe, vittima del bisogno di accogliere e intrattenere che si confonde con quello di lenire disagio e disperazione.

Millantatrice e dispensatrice di benefici materiali e spirituali  che, in verità, sono solo malefici.

In un’ambientazione tanto gaudente all’inizio quanto mortifera sul finale, che ricorda una sala autoptica, dove le luci sono false mentre le ombre sono verissime, si celebra l’autosoppressione di quell’umanità inconsapevole o distorta, che trascina nel baratro anche sentimenti puliti e acerbi come quello tra Toby e Monica.

Allorquando si cerca, esasperatamente, di sopprimere il malessere con l’alterazione e la devianza, spesso, si sopprime anche la vita.

Il sottotesto, sempre più attuale, è il volto nascosto della società contemporanea: l’incapacità di trovare un modo, un tempo e un sentimento per comunicare e comunicarci, e l’ansia dell’ altrove, di un mondo “altro”, che ci comunichi qualcosa di noi che non riusciamo a sentire.

La dolceamara certezza che c’è sempre una fine al male. E forse anche al bene.

Il memento che Bunuel ci racconta nel suo “Angelo Sterminatore” (sempre fra di noi, nonostante noi) o, per citare Saramago, l’intermittenza sottile della morte.

Serena Nardi